
Titolo: Emilia Pérez
Regista: Jacques Audiard
Genere: drammatico, musicale
Data di uscita: 21 agosto 2024
Durata: 2h10
Recensione: ★★★★☆
Rita Castro, un’avvocata abituata a scagionare persone che di innocente non hanno nemmeno le apparenze, viene contattata da Manitas, leader di un cartello messicano per affidarle la sua transizione sessuale. Manitas dunque inscena la sua morte cosicché possa nascere Emilia e cominciare una nuova vita all’insegna dell’altruismo.
Il film, originariamente concepito come un’opera lirica in quattro atti, si presenta come una pellicola musicale – una via di mezzo tra un film e un musical – divisibile in due parti: un prima e un dopo di cui l’operazione è lo spartiacque. Vengono dunque raccontate due storie, quasi si trattasse di due film ben distinti ma comunque legati da un sottile filo rosso di cui l’avvocata si fa in qualche modo portavoce.
Trama a parte, trovo che Emilia Pérez offra diversi spunti di riflessione decisamente interessanti! Primo tra tutti, spicca sicuramente il contesto in cui è inserita la storia: il Messico. Molte e forti sono state infatti le critiche rivolte alla rappresentazione che il film offre del Paese. Vero è che di quest’ultimo vengono ancora una volta riproposti quelli che potrebbero essere considerati i classici stereotipi ad esso legati, in primis la droga e le conseguenti lotte tra bande. Ma personalmente trovo queste critiche piuttosto sterili: in questo caso ho vissuto il Messico come uno sfondo, una mera scenografia di cui vengono enfatizzati alcuni tratti forse utili allo sviluppo della trama ma che comunque non hanno la pretesa di rappresentare un intero paese. Uno dei protagonisti della storia sente l’esigenza di cambiare sesso, e il fatto di essere a capo di una delle più importanti associazioni a delinquere della zona a parer mio vuole solamente sottolineare la difficoltà della persona a comunicare i suoi desideri persino a sua moglie. Fa poca differenza se l’associazione a delinquere è un cartello messicano o una famiglia mafiosa che gestisce un paesino della nostra amata Sicilia. Che tale rappresentazione fosse invece un modo per la Francia di togliersi un sassolino dalla scarpa che si portava dietro dall’uscita di Emily in Paris e della sua rappresentazione della nazione francofona che tanto ha offeso i suoi abitanti? Scherzi a parte – anche perché la serie è statunitense –, sarebbe interessante poter confrontarsi su questo aspetto con i nostri amici messicani! Considerando però il film satirico Johanne Sacrebleu, spopolato sui social network in lingua spagnola e girato dalla regista trans messicana Camila Aurora, forse una mezza idea già ce l’ho…
Il mio occhio ha invece messo l’accento su tutta un’altra questione: la complessità delle emozioni e più in generale delle relazioni umane. Il protagonista – Manitas, che diventerà poi Emilia – si trova a dover affrontare una scelta difficile e, sembrerebbe, anche piuttosto sofferta, tanto che si mette in contatto con l’avvocata Rita Castro per valutare la fattibilità della cosa. Con lei Manitas si apre, le racconta la sua storia, le affida la sua famiglia e la sua sicurezza. La stessa cosa farà Emilia Pérez, che per Rita diventerà come una sorella: insieme condivideranno il lavoro, i successi e la vita privata. Ma né Manitas né Emilia condivideranno una sola parte di questo percorso prima interiore e poi esteriore con Jessi, la moglie: quest’ultima viene trasferita insieme ai suoi figli dal Messico alla Svizzera, ma giusto il tempo di rifarsi una vita, perché quattro anni dopo Emilia è distrutta dai chilometri che la dividono da quelli che sono anche i suoi di figli e chiede a Rita di riportarle indietro la sua famiglia. Jessi è confusa, non capisce. Sapeva che il trasferimento in Svizzera era una precauzione necessaria dopo la morte del marito: lei era la prima persona che avrebbero cercato dopo la sua morte. Ma adesso chi è questa Emilia, che dal Messico dice di essere la cugina del defunto? Perché si fa viva e soprattutto perché lo fa solo ora? Perché offrire asilo a persone che conosce a malapena? Rita la convince a tornare in Messico e lei si fida. Lei si fida? Ci prova. E, di nuovo in madrepatria, Jessi riaccende una vecchia fiamma che a sua insaputa scatena però un incendio, perché Emilia vorrebbe qualcosa di diverso per i suoi figli, qualcosa di meglio, ed è pronta a tutto per darglielo. Ma se Jessi stesse già facendo del SUO meglio per loro? Di sicuro non vuole che sia una lontana zia di famiglia a scegliere per loro. Ci troviamo dunque di fronte ad un bivio di cui entrambe le strade sono giuste: sia Jessi che Emilia hanno diritto a crescere i loro figli. E la soluzione ce la dà Rita, come fossimo in tribunale, con la sua lapidaria sentenza nei confronti di Emilia: “Ci dovevi pensare prima”. Boom. Chiusa. Ferita. Perché l’avvocata ha ragione: come poteva pensare che Jessi non rivendicasse il suo “potere” sui suoi figli rispetto alla zia? Una donna ferita, a cui è stato sottratto prima il marito poi la vita, non si lascerà togliere anche i figli. Una donna impaurita, che non ha idea di cosa stia succedendo e che sembra non avere il controllo su quello che la circonda. E allora scappa. Scappa con la sua vecchia fiamma, figli al seguito. Emilia chiede aiuto a Rita per andarseli a riprendere, ma quel delinquente dell’amante riesce a fregarle. Plot twist. Emilia decide allora di liberarsi di un altro di quei pesi che è tanto abituata a portarsi dentro.Si lascia andare, ed è forse questa la vera svolta, perché quando Jessi realizza chi è veramente la zia rompicoglioni la si sente chiaramente affermare “Manitas, mio marito è nel portabagagli”. Eccolo il nocciolo del film: suo marito. Tanto che, pensate un po’, dà il titolo all’intero film. Perché, nonostante le comprensibili esitazioni, i dubbi e la paura, Manitas era suo marito e lo è ancora. E non è questa l’unica cosa che conta? Purtroppo è molto sottile la linea tra il voler proteggere e il ferire la persona che amiamo. Per paura di ferire ed essere feriti, si arriva a parer mio a sottovalutare addirittura l’altro: perché diamo per scontato che la persona che abbiamo scelto e che ci ha scelti non possa comprendere? Perché ci arroghiamo noi il diritto di scegliere per loro? Jessi avrebbe comunque potuto mostrare dubbi nei confronti di una scelta che avrebbe stravolto anche la sua di vita, ma è giusto per questo escluderla dalla vita di Emilia? Posso solo immaginare la paura che abbia fatto propendere la filantropa – Emilia – per questa seconda opzione ed egoisticamente parlando non mi sarebbe piaciuto trovarmi al suo posto.
Un tema non facile, insomma, che il regista ha deciso di proporre al pubblico inframezzato da canzoni e coreografie che purtroppo non sono riuscita ad apprezzare nella maggior parte dei casi. Devo ammettere però che i musical non sono il mio genere e nonostante il film non sia propriamente classificabile come tale, ho comunque fatto fatica a seguire quei dialoghi anche semplicemente “ritmati”. Si salva qualche canzone e rispettiva coreografica, che nel complesso potrebbero anche andare a compensare la delicatezza del tema trattato e alleggerirne un po’ il carico. Diciamo che il mio livello di tolleranza nei confronti della musica nei film è poco sotto a quello proposto dalla Disney: tre o quattro canzoni ben piazzate che racchiudono il nocciolo della situazione. Che poi a distanza di vent’anni io ancora canti Hakuna Matata poco importa.
Carattere musicale a parte, ho apprezzato molto i temi toccati dal film e il modo in cui quest’ultimo li ha affrontati. Diciamo che la pellicola mi ha lasciata con un sacco di domande alle quali forse non troverò mai una risposta, ma che spero mi renderanno una persona migliore.

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